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La rappresentazione nel pensiero occidentale

La rappresentazione è il modo attraverso il quale un individuo acquisisce conoscenza, essa è la struttura cognitiva di base: è il trasformare da parte del cervello gli impulsi materiali che provengono dai sensi in immagini mentali. 

Le neuroscienze, le psicologie, le psicanalisi e la psichiatria, le diverse filosofie, le scienze esatte e le scienze umanistiche, le religioni, l’arte, il simbolismo, ogni manifestazione di pensiero, ogni pensiero della mente umana riposa sulla rappresentazione. 

Ciò è noto per il neurochirurgo, che conosce la rappresentazione teoricamente per quanto non la possa vedere operare perché le immagini cerebrali sono appunto inconoscibili all’osservatore, ed è in effetti noto a chiunque vi voglia riflettere; è pacifico per il pensiero occidentale che ogni uomo conosca la realtà attraverso la rappresentazione: tutta la vita di chiunque è fondata in ogni istante sulla rappresentazione. Tutto il resto della mente, i pensieri, le emozioni, i sentimenti, il raziocinio, la computazione, la superstizione, la matematica, la fede, il tifo calcistico, ogni tipo di pensiero ha come fondazione basica il fatto che il cervello elabora particelle elettro-chimiche in immagini mentali. (Per inciso, il come questa conversione da materia a non-materia accada non lo sa nessuno, le neuroscienze sono appunto il tentativo di studiare come ciò possa accadere sperando che ci si imbatta nel come effettivamente accada, ma la speranza finale che alimenta le neuroscienze è a doppio taglio: se si desse la prova di come la materia diventa immateriale, allora risulterebbe al contempo provata la violazione del principio di ragione.)

Non si tratta solamente di osservare che se gli esseri umani non avessero occhi la realtà sarebbe nera e invisibile, o che microscopi e telescopi altro non sono che prosecuzione dei sensi così come l’intelligenza artificiale è una prosecuzione della rappresentazione razionalizzante, oppure che possano esistere piani di realtà che pur essendo ben fisici sono detti inesistenti perché sfuggono al contatto. Bensì il punto basilare della rappresentazione è che essa divide la realtà tra “chi rappresenta” da una parte e “le cose rappresentate” dall’altra: il riflettere sull’essenza della rappresentazione è solo secondariamente l’opinare cosa siano il “chi” pensa (cioè il “chi” rappresenta) o cosa siano le “cose” che si esperiscono per mezzo dei sensi (cioè il “cosa” rappresentato), cioè se davvero io e oggetti siano come appaiono oppure no; si tratta invece di ammettere che la rappresentazione già in sé sconta la dicotomia tra soggetto e oggetto. La rappresentazione riporta i fenomeni esterni ad un io cogitante, ma la strutturazione della realtà in soggetto da una parte e oggetti dell’altra, donde viene? È essa biologicamente intrinseca alla mente? Oppure la mente che vive credendo sé l’io e credendo le cose esterne oggetti è solo una dimensione della mente, che sussiste a fianco di altre dimensioni della mente? Il pensiero occidentale, e in generale il pensiero discorsivo, ritengono che la divisione della realtà in soggetto che pensa e oggetti esterni alla mente sia implicata nella mente stessa; secondo altre opinioni, invece, la divisione della realtà in soggetto che pensa e oggetti esterni alla mente è una condizione che è un minus rispetto alla natura della coscienza, sì che la mente che crede che esistano soggetto e oggetti è detta appunto la mente “ordinaria”, ossia appunto la mente che vive nella rappresentazione.

I non pochi filosofi che si sono domandati sulla rappresentazione si sono limitati a considerare natura ed essenza del “chi rappresenta” e delle “cose rappresentate”, senza avvedersi che può essere la rappresentazione stessa proprio ciò che “crea” gli enti, soggetto ed oggetti — questa alternativa fondamentale ed ultima della rappresentazione nel pensiero occidentale la hanno messo a tema davvero pochissimi. In questa prospettiva la rappresentazione non è “solo” il sostituire particelle chimico-fisiche con immagini immateriali, lo è certo anche, ma la rappresentazione è questa trasformazione in tanto in quanto è proprio essa a anteriormente creare la legittimità degli oggetti rappresentati e del soggetto rappresentante, e quindi la legittimità delle particelle materiali “esterne” e delle immagini mentali “interne”.

Il parlare della rappresentazione implica quindi tre piani. 

Quanto alla sua essenza, come chiunque sa e non può non sapere, essa è un “meccanismo” che consente di apprendere alla mente il mondo esterno alla mente, e questo meccanismo consiste nella sostituzione di elementi fisici e materiali con immagini mentali e immateriali. 

Il secondo piano riguarda l’oggetto della rappresentazione: in che misura vi possa essere garanzia che le immagini mentali corrispondano alla realtà effettiva che sta fuori della mente. Su ciò, al netto di dubbi che paiono a ben vedere non più che presupposizioni, tutto il pensiero occidentale dà per scontato che in ogni caso la rappresentazione debba essere considerata fededegna, cioè che cosa appare essere in effetti sia essente o comunque debba essere considerato essente come appare, e ciò proprio a causa del fatto che la rappresentazione è creduta l’unico e solo modo con cui la mente si rapporta alla realtà (il come poi effettivamente ciò accada, o possa accadere, non lo si sa né saprà perché, come detto, il saperlo implicherebbe la violazione del “sapere”, dell’episteme). 

Poi c’è il terzo livello, ben più profondo, che involge la legittimità stessa della rappresentazione; questo punto di vista non dubita che la rappresentazione sia una modalità di conoscenza, e sostanzialmente si disinteressa della questione della coerenza di merito tra il veduto e il creduto (proprio perché essendo la rappresentazione una modalità di conoscenza essa soggiace ai limiti che la costituiscono). Questo terzo livello mette in gioco la legittimità della rappresentazione in quanto opina che essa deformi la realtà a livello strutturale (cioè non solo per un non replicare con conformità dentro la mente i fenomeni ad essa esterni): il meccanismo rappresentativo è erroneo a causa del fatto che non esistono in sé né “oggetti da rappresentare” né un “soggetto che rappresenti”, bensì proprio il ritenere che esistano un soggetto, l’io, e oggetti, fenomeni esterni all’io, è già l’errore pregiudiziale  cagionato dalla rappresentazione stessa — detto altrimenti, soggetto e oggetto sono categorie create dalla rappresentazione, la quale isola porzioni del tutto e le entifica, creando appunto le forme di io e oggetti. Chi constati che la rappresentazione sia essa stessa ciò che ab origine “crea” soggetto e oggetto, non vuole con ciò negare che secondo la rappresentazione siano legittimi i nomi di soggetto e oggetto, ma appunto dice che le nozioni di “io” e “cose” siano valide solo all’interno del punto di vista che tali nozioni ha creato. Ciò non significa “negare” la rappresentazione quale modo di conoscenza della realtà installato nella mente, ma riconoscere che essa sia già solo appunto niente altro che una modalità, una interfaccia, la quale crea strutture in modo autoreferenziale. La difficoltà ad ammettere questo punto di vista, cioè si ripete ad ammettere che soggetto e oggetto siano categorie create della sola mente, risiede nel fatto che, pur se è vero che è teoreticamente facilmente constatabile la autoreferenzialità della rappresentazione, tuttavia tutti vivono nella rappresentazione, ovvero ciascuno vive credendo di essere l’io e credendo che fuori dalla sua mente esistano oggetti. Chi vive nella rappresentazione non può constatare che l’io sia una struttura in sé illusoria, perché ovviamente l’io non è in grado di negarsi da sé, non si può pensare di non essere l’io, perché ciò che pensa è già appunto l’io; ed infatti i sostenitori della modalità noetica pre-rappresentativa dicono ciò che dicono intorno alla rappresentazione e all’io in quanto ritrovantisi al di qua dell’io, il che consente, a loro dire, di vedere “dall’esterno” tanto la modalità rappresentativa quanto l’io; mentre chi è l’io non può vedere direttamente se stesso, così come gli occhi non posso vedere se stessi in modo diretto. Secondo questa opinione la rappresentazione è in sé un autoinganno, ma non affatto perché le immagini mentali non possano o non debbano corrispondere ai fenomeni, bensì perché l’ambito di ciò che la rappresentazione può far conoscere alla mente è delimitato dai confini di cosa il corpo può conoscere; questa opinione afferma che codesto limite non è quantitativo, come sarebbe se si potessero avere altri sensi aggiuntivi rispetto ai cinque consueti, ma dice che c’è un modo di conoscenza diverso ed ulteriore rispetto al sostituire asserite cose con asseriti immagini mentali. Sostiene questa opinione che la mente può essere permeata di conoscenza a prescindere da contatti sensoriali, a prescindere dal corpo; ed anzi che è proprio l’essere la mente costretta in un corpo a generare la credenza che la rappresentazione sia l’unico modo di conoscenza della realtà: secondo queste dottrine la mente è cosa diversa dal corpo, non è solo emanazione o emergenza del corpo, ma è di altra natura, ed è solo il corpo che limita la mente al corpo stesso (il dogma delle neuroscienze è invece che la mente immateriale emerga dal corpo materiale, e il fine di questo ambito di ricerca è appunto di dimostrare la metamorfosi della materia in non-materia). Anche secondo questa opinione, cioè, la rappresentazione non è sbagliata in sé, è ritenuto però sbagliato il credere che essa sia l’unico modo di conoscenza — e se universalmente si crede che sia l’unico, è solo perché una delle tare della ragione calcolante è quella di ritenere inesistente ciò che ignora. 

La ante-rappresentazione al “terzo livello” quindi è altra cosa dei concetti che talora esponenti del pensiero occidentale rappresentativo, filosofi o psicologi o scienziati, espongono come modi non-rappresentativi: nel momento in cui ci si riferisce ad un conoscere o ad un esperire un oggetto da parte di un soggetto, ebbene ciò è già meramente interno alla rappresentazione. (Si può definire questo terzo livello della rappresentazione come conoscenza mistica? La risposta dipende da cosa si intenda con la parola “mistica”: se si intende cosa comunemente intende il pensiero occidentale, cioè che la mistica sia “la capacità che alcuni individui hanno di cogliere un oggetto o un essere, una realtà misteriosa altra da sé, al di là delle consuete forme di conoscenza empirica o razionale”, come la definisce il Vocabolario Treccani, allora questa definizione di mistica non è il terzo livello della rappresentazione, perché evidentemente questa mistica consta di un “soggetto” che conosce e di “oggetti”, enti o porzioni di realtà, che sono conosciuti, cioè questa nozione di mistica è puramente interna alla rappresentazione.) Se si ammette che la rappresentazione sia la modalità mentale che “fa essere” il soggetto e i tanti oggetti, ne segue che nessuno che sia soggetto la possa vedere. Ed in effetti nel pensiero occidentale questo terzo livello della rappresentazione è, salvo eccezioni tanto uniche quanto immani, puramente non considerato.

Nessuno dubita o ha giammai dubitato che la mente conosca la realtà ad essa esterna sostituendo a elementi materiali immagini immateriali, veridiche o meno rispetto ai fenomeni rappresentati le quali siano: questi sono i due livelli della rappresentazione entro cui si dibatte il pensiero occidentale, il quale appunto opina che la rappresentazione sia l’unico modo di conoscenza della realtà. Una diversa opinione tiene ferme queste due constatazioni ma precisa la natura della rappresentazione dicendo che essa modifica la realtà in cui agisce dividendola in simulacri di categorie astratte, soggetto e l’oggetto: questa diversa opinione implica che — ovvero proviene dalla constatazione esperienziale che — la rappresentazione non sia l’unico modo di conoscenza della realtà, ma che ve ne sia un altro anteriore alla rappresentazione stessa, cioè anteriore alla dicotomia tra soggetto ed oggetto. 

Quindi, riassumendo, la rappresentazione è per tutti e chiunque una modalità di conoscenza della realtà che sostituisce, non si sa come, elementi immateriali e coscienziali alle particelle chimiche e elettriche che si generano a causa della interazione meccanica tra fenomeni esistenti esterni al corpo e il corpo di un individuo (o a partire da fenomeni fisici interni al corpo ma appunto esterni alla mente); gli esiti di questa interazione meccanica, fisicamente ed oggettivamente misurabili, entrano nel sistema nervoso centrale e a un certo momento “generano” phantasmata — ovvero, poeticamente, accade la trasformazione di materia in pensieri.

Questa è la piattaforma del pensiero discorsivo nel suo insieme. Per pensiero discorsivo si intenda il pensare stesso, cioè l’inanellare idee, ragionamenti, collegamenti e quant’altro a partire da quelle immagini mentali che sorgono nella coscienza a partire dagli stimoli organici; il pensiero discorsivo è cioè la prosecuzione della rappresentazione nella coscienza. La ragione è quella porzione del pensiero discorsivo che esclude da sé i pensieri che non abbiano i requisiti che la ragione stessa, come fenomeno culturale, di volta in volta ponga, dal nesso causale alla rispondenza dei singoli pensieri a super-pensieri formali — come operi la ragione lo ha esaurientemente mostrato, dall’interno della ragione, Aristotele. 

Appunto secondo il pensiero discorsivo, e secondo il pensiero occidentale in quanto tale, la rappresentazione è l’unica modalità di conoscenza della realtà, perché appunto il pensiero discorsivo è già solo specchio della rappresentazione: non conoscendo il pensiero discorsivo altro dalla rappresentazione, afferma che esista solo la rappresentazione. 

Secondo altre ristrette ma convergenti opinioni, invece, la rappresentazione è sì certamente la principale e “normale” modalità di conoscenza della realtà, ma non è l’unica; secondo questa opinione “di terzo livello”, la rappresentazione è precisamente quella modalità di conoscenza della realtà che opera attraverso la presupposizione delle categorie di soggetto e oggetto.

Data questa ampia premessa, si può ora apprezzare cosa il pensiero occidentale abbia ritenuto e ritenga intorno alla rappresentazione. 

La prima e la seconda nozione di rappresentazione sono ben presenti da sempre, in modo prima implicito e poi esplicito, nel pensiero occidentale, né può essere diversamente giacché appunto la rappresentazione costituisce la piattaforma del pensiero discorsivo. La terza nozione invece esula a priori dal pensiero occidentale: la filosofia è per definizione il tentativo di conoscenza razionale della realtà, le scienze sono spiegazioni razionali di porzioni della realtà; la ragione è manifestazione qualificata della rappresentazione, la conoscenza pre-rappresentativa è invece anteriore alla ragione, per questo la ragione non può conoscere che la rappresentazione. Se si è anticipata come terza premessa la conoscenza pre-rappresentativa, è perché il lettore la veda apparire nelle parole dei pensatori che si indicheranno di seguito come “eccezioni” alla filosofia.

Per ogni forma di pensiero del mondo occidentale, la rappresentazione è non solo il metodo basico e ovvio di conoscenza, ma è considerata si ripete l’unico, sì che si deve dire che la rappresentazione sia il fondamento della natura umana (ed anche degli animali e degli esseri senzienti in generale si potrebbe aggiungere, il cervello umano solo “elabora” di più e la mente è, almeno in parte, autocosciente). (Questa nozione generale di rappresentazione è strutturale e cognitiva. Alcuni contemporanei contrappongono alla concezione classica di rappresentazione situazioni quali l’esperienza diretta o l’intuizione, ma in queste pagine si intende la rappresentazione in senso filosofico ed elementare, cioè appunto come sostituzione di immagini mentali a impulsi fisici, sì che essa ricomprende naturalmente tanto l’esperienza diretta (in quanto essa è acquisita alla mente attraverso l’encefalo che la sintetizza, non certo come un ente fisico che “entra” nella coscienza, che ente fisico non è), quanto le intuizioni (che altro non sono che immagini cerebrali generate a partire da precedenti immagini cerebrali); analogamente, il progredire della specializzazioni in dipartimenti ha creato etichette che si distinguono dalla apprensione sensoriale, come la propriocezione, la interocezione e via dicendo, ma dal punto di vista cognitivo di base cose come il sentire il proprio corpo ovvero il sentire fame o sete, nei limiti in cui siano “conoscenza” sono una rappresentazione, in quanto reazione del sistema nervoso a meccanismi organici.)

Per il mondo occidentale, quindi per ogni scienza ed ogni filosofia, la rappresentazione è la natura umana e così è, non ha nemmeno senso pensare che possa essere altrimenti: l’uomo è un essere vivente che conosce sostituendo a elementi rozzamente materiali, di natura chimica o elettrica, immagini create dal cervello, e di poi elabora, sempre attraverso il cervello, le immagini mentali che si è creato, costruendosi un’immagine globale della realtà nel suo insieme et omnia

Questo è il piedistallo del pensiero occidentale, la rappresentazione che crea  l’essere: la realtà è fatta di cose che sono — le nomina già Omero: le cose che sono, le cose che furono, le cose che saranno. Dire che la realtà consta di enti è cioè già conseguenza della rappresentazione, del sostituire a elementi materiali immagini mentali: questo meccanismo sostitutorio sarà enucleato solo a partire dalla filosofia moderna, da Cartesio, ma esso è ovviamente già implicito in Aristotele, perché appunto Aristotele parla della realtà come fatta di singole cose che sono; l’io come soggetto sarà nominato da Cartesio, ma appunto il dire che ogni alcunché di determinato sia un ente presuppone il considerare ogni fenomeno un “oggetto” (come intenderà oggetto la filosofia moderna) acquisito alla mente ovvero al “soggetto” che appunto lo considera (che è ovviamente sempre e già l’io cogitans), allo stesso modo in cui l’acqua che beveva Aristotele era fatta di atomi di idrogeno e ossigeno nonostante lo Stagirita non conoscesse la struttura atomica dell’acqua. Quindi la domanda sull’essere, che è la domanda per rispondere alla quale si è sviluppata la filosofia, è in effetti già solo una conseguenza del ritenere la rappresentazione l’unico meccanismo di conoscenza della realtà: solo se si crede esistano enti, cose che sono, ci si può interrogare sul loro essere. E in questa prospettiva si può anche ritenere che se per duemilacinquecento anni si è cercato di rispondere a questa sola ed unica domanda, la domanda sull’essere, dandosi ad essa ogni tipo di risposta immaginabile, da un estremo all’altro dello spettro del cogitabile passando per tutti i tratti intermedi, al punto che oggi non si ha quasi più nemmeno la forza di chiedersi sull’essere, per quanto ovviamente non sia possibile obtorto collo non ritenerlo l’inconcusso fondamento, ma si ammette, surrettiziamente, che la verità, cioè la verità sull’essere, è debole in sé, allora il dubbio che errate siano non tanto le risposte quanto la domanda è legittimo sorga (il che è in effetti cosa ha osservato Heidegger).

La rappresentazione è quindi davvero la piattaforma del pensiero occidentale. 

Tra i filosofi, alcuni grandi pensatori sulla rappresentazione quale struttura originaria della mente si sono interrogati, prima di accettarla come essenzialità biologica — d’altra parte i grandi filosofi sono coloro, per impiegare le parole di Eraclito, i quali indagano la propria mente ed espongono come la vedano funzionare.

Cartesio fu colui che si chiese quale garanzia vi fosse che ciò che i sensi apprendono e il cervello elabora sia davvero la realtà, nel senso del domandarsi quale garanzia ci sia che ciò che ciascuno crede il vivere non sia invece un sogno; e concluse che l’unica garanzia è che Dio, essendo buono, non avrebbe potuto permettere un simile brutale inganno. Questo è il presupposto del pensiero di Cartesio, tutto il resto delle sue copernicane dissertazioni è conseguenza: dapprima egli si domanda direttamente sulla rappresentazione — non al suo terzo livello essenziale di cui si è detto sopra, bensì al livello di come operi: Cartesio intese che la realtà è conosciuta dalla mente in quanto la esperisce, che ognuno è un soggetto in mezzo ad oggetti, e appunto concluse che l’unica cosa di cui possa dirsi che “è” è appunto la mente in quanto soggetto. Comprese che la mente (ordinaria) non può che conoscere secondo la rappresentazione; egli credeva che la rappresentazione fosse l’unico modo di conoscenza della realtà, ovvero egli si trovava “dentro” la rappresentazione (non “la vedeva”), e si pose le semplici domande che la rappresentazione pone, sulle quali si scervellarono in crescendo autoreferenziale i filosofi successivi. Secondo Cartesio la realtà potrebbe non essere per nulla come appare perché gli oggetti sono rappresentati al soggetto; decise accettarla per vera per come appare, e scelse di affidarsi alle elaborazioni della ragione, giustificando la sua opinione con la credenza nell’esistenza di (un) Dio. 

Kant fu poi certo più sottile, ma l’esito pratico restò immutato: cosa siano in sé la realtà e le cose non lo si può sapere, proprio perché opera la rappresentazione, ma tuttavia occorre seguire la ragione, che della rappresentazione è conseguenza, e quindi vivere la realtà come appare, per il semplice fatto che nella rappresentazione l’uomo vive, e non si può fare, né pensare, diversamente. Kant era cioè ben consapevole del fatto che la rappresentazione fosse un velo tra la mente e il mondo esterno, ma ritenne che questo velo fosse connaturato alla natura umana. 

Fichte per superare il dubbio kantiano opinò quanto segue: dato che come sia la cosa in sé non lo si può sapere, “quindi” la realtà “è” come appare alla mente. Hegel proseguì Fichte asserendo: “quindi” cosa appare all’io è necessariamente vero, “quindi” ciò che la ragione (la sua, la mia, la vostra?) crede di sapere è la verità, e “quindi” ogni cosa è comprensibile dalla ragione. Con ciò Hegel si dimostra dal punto di vista gnoseologico-pratico identico ad Aristotele, cambiando solo il presupposto nominale dell’idealismo rispetto al realismo del greco: la realtà è come appare. Schopenhauer, che peraltro taluni ritengono più uno scrittore filosofico che un filosofo, non altro che accettare supinamente la rappresentazione come struttura cognitiva fece, solo vi affiancò lo volontà, senza rendersi conto che il suo Wille è un elemento della rappresentazione. 

Nei nostri giorni, ancora, nella filosofia (aristotelico-)analitica d’oltreoceano si propongono confutazioni oppure argomenti a sostegno alla idea del cervello in una vasca di Putnam: il negare o l’affermare la possibilità che la realtà sia simulata, per lo meno rispetto a come il cervello umano la apprende, si fondano entrambi sul dogma che l’encefalo para-normalmente crei la mente attraverso la trasmutazione di elementi materiali in pensieri, ovvero si fondano sul credere la rappresentazione l’unico modo di conoscenza.

In altre parole, la filosofia occidentale ha dapprima e per due millenni sempre e solo indagato l’essere degli oggetti, prodotto della rappresentazione, senza rendersi conto che alla base dell’essere ci fosse la rappresentazione; poi dalla svolta “moderna” ad oggi la filosofia continua a indagare l’essere, consapevole del fatto che esso sia una rappresentazione, ma appunto non ci si interroga sulla essenza della rappresentazione, bensì sempre e solo sull’essere delle cose che sono e che uno è — questo solo è il contenuto della filosofia occidentale, tentare di rispondere alla domanda sull’essere delle cose che sono, con l’aggiunta, a partire da un certo punto, dell’io tra le cose che sono.

Nietzsche invece spezzò il gioco della rappresentazione, a partire dal giovanile Su verità e menzogna in senso extramorale: tante volte scrisse che soggetto e oggetto sono una finzione autoreferenziale, che l’essere non è che un pregiudizio, che la logica è un’opinione. Dopo di lui Heidegger proclamò con ogni chiarezza che la rappresentazione in quanto modalità conoscitiva umana non garantisce la conoscenza di nulla di più di cosa già da prima di voler sapere si crede sapere. Per Heidegger certamente la rappresentazione è il modo ordinario di conoscenza della realtà, ma altrettanto ovviamente è una modalità autoreferenziale; essa non è per Heidegger la struttura della mente umana bensì solo la struttura della mente che ad essa si adagi.

Lo stacco frastornante tra la filosofia occidentale come tale fondata sulla rappresentazione da un lato, e le parole di Nietzsche e Heidegger dall’altro, sta già tutta solo nella opposta considerazione delle strutture basiche della mente: per la ragione c’è e non ci può non essere un soggetto che rappresenta gli ovviamente esistenti oggetti fenomenici, per la visione pre-teoretica soggetto e oggetto sono in sé illusori, anche finzioni create dalla rappresentazione stessa. La differenza tra la filosofia e la pre-filosofia è ciò radicalmente abissale, ed infatti Heidegger scrive spesso che la disposizione pre-teoretica è un altro inizio, un’altra modalità della mente rispetto alla rappresentazione e quindi rispetto al pensiero discorsivo. 

Heidegger ha mostrato teoreticamente non solo che la conoscenza rappresentativa sia in sé non-verace (e che il pensiero occidentale intero in quanto rappresentativo sia meramente metafisico, che sia cioè “un credere di sapere”), ma che al di sotto di essa vi sia, non vi possa che essere, una dimensione della mente pura pre-rappresentativa, anteriore all’ordinario trasformare i fenomeni in immagini mentali. Heidegger, è chiaro, non dice che questa pre-teoretica sia una conoscenza della realtà oggettuale da parte dell’io soggetto la quale sia antecedente all’instaurarsi della rappresentazione, dice invece che è la divisione stessa della realtà nelle categorie di soggetto e oggetto ad essere già l’abbaglio cagionato dalla rappresentazione. Come può egli affermare ciò? Ci sono due movimenti nel pensiero essenziale di Heidegger: l’uno che muove dalla ragione ovvero dalla rappresentazione fino ai suoi propri limiti che in quanto tali si mostrano autoreferenziali, e l’altro che è lo stazionare nella radura rischiarata (Lichtung) che consente una conoscenza scevra di categorie. Il problema della comprensione di Heidegger è che solo questo stazionare consente di ritrovarsi al di qua della rappresentazione, mentre il primo movimento è interno alla rappresentazione stessa. 

Heidegger tutto ciò lo ha espresso negli anni ’30 e ’40 del Novecento. Altri filosofi hanno detto cose analoghe, oltre a Nietzsche? (Taluni è noto le dicano, e dicano ben di peggio, ma nessuno si sogna di annoverarli tra i filosofi.) Si prendano i libri centrali della Repubblica di Platone, unanimemente considerati la summa del suo pensiero; in rapida sequenza vi si legge che gli uomini ordinariamente è come se vivessero in una caverna e vedessero solo ombre delle cose, mentre taluni escono alla luce del sole; vi si legge che, data la conoscenza come linea divisa in quattro settori, la ragione è al terzo posto, limitata ed inidonea a conoscere effettivamente la realtà; ed infine che la sua propria filosofia dialettica è l’aprirsi dell’occhio della psiche ergentesi dal fango in cui giace. Allo stesso modo, in altri dialoghi, Platone dice che i sensi non garantiscono nessuna conoscenza vera della realtà bensì ingannano (e questa è naturalmente una condanna dell’operare della rappresentazione, senza le esimenti che escogitano Cartesio e Kant), che la verace conoscenza non è comunicabile come le altre conoscenze, non si può apprendere leggendo o disputando, ma deve accendersi nella mente come la luce allo scoccare di una scintilla (e questo è l’identico della Lichtung heideggeriana). Naturalmente questi sono solo cenni di citazioni di passi, si tratterebbe di ripensare Platone, avendo come guida però i punti fermi inequivocabili che lui fissa, non già i pregiudizi che piacciono ai suoi lettori — i quali se non tutti di certo quelli annoverati nella storia della filosofia ritengono che codesti passi platonici siano metafore più o meno poetiche e che Platone sia stato il primo e uno dei più convinti e profondi razionalisti del pensiero occidentale (questo tipo di interpretazione extra-letterale è conseguenza del fatto che la ragione opera geneticamente riducendo ai propri limiti ciò in cui si imbatte, come peraltro scrive proprio Platone nel Teeteto).

Platone, se appunto si legge cosa scrive, dice lo stesso di Heidegger. Il primo e l’ultimo dei più grandi filosofi dicono senza mezzi termini che la rappresentazione è una struttura deformante in sé, e soprattutto dicono che la vera conoscenza sta nell’aprirsi di una qualche luce.

Certo queste sono parole che non dicono nulla di più di cosa dicono; né Platone né Heidegger spiegano cosa sia il pre-teoretico, ovvero ne accennano ma ovviamente, come avvertono, in modo teoretico, cioè con parole, che ognuno ovviamente capisce come vuole. Platone e Heidegger, ma anche Parmenide e Nietzsche, costituiscono voci dissonanti, il primo sempre misinterpretato il secondo oramai nascosto sotto il tappeto, che dichiarano che la rappresentazione non è la natura umana, ma semmai solo la natura umana “ordinaria”: chi non gode della luce di cui essi parlano, vive nella bolla della rappresentazione, come ci vissero Aristotele, Cartesio, Kant, Hegel e Gadamer, i neuroscienziati, gli psicologi, gli psicanalisti e via dicendo. 

Chiaramente se una palude immota offre due increspature difformi dal tutto, come si può pretendere di spazzare via millenni di abitudini mentali in base a striduli acuti? Ed in effetti Platone e Heidegger non dicono in pratica nulla di più di quanto sintetizzato sopra: la rappresentazione è dichiarata essere cosa tutti sanno che sia, un aliud pro alio.

Antonio Viglino 

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